28 dicembre 2024 * William De Biasi
28 dicembre 2024. Il gelo risale dalle radici, scivola tra le fenditure della terra come un respiro antico. Fa freddo, ma non solo nell’aria: è una freddezza che arriva dai muri, dai secoli, dalle cose non dette. Mi trovo davanti a quella che resta della cappella di San Gualo, anche se nessuno la chiama più così. Oggi, è solo “la chiesetta dei crepacci”, o “quella con la A sull’altare”. A nessuno importa più chi fosse Gualo. A pochi, se non a nessuno, è dato ricordare chi fu Cazzulio.
Eppure è scritto, inciso in latino sopra la soglia spezzata da cui sono appena entrato. Non tutto si può leggere, alcune lettere si sono sgretolate come pane secco. Ma quelle rimaste raccontano: “Questa piccola casa un tempo fu fondata da Cazzulius. Poi Guala, con il fratello, la riedificò e la ampliò...”
La luce filtra da una finestra senza vetro, in alto, sopra ciò che resta dell’altare. Lì, un tempo, c’era un affresco: ora è rimasta solo polvere azzurra, un cielo a metà. L’altare è ridotto a uno scheletro di marmo, e nel cuore della sua facciata campeggia una “A” rosa, sfacciata e viva come un urlo in mezzo a una preghiera mai detta. L’anarchia ha trovato casa dove il silenzio regna da decenni. È strano come la ribellione sembri più viva del culto.
Mi aggiro tra le pietre, le tegole divelte, i pezzi di passato sparsi come ossa. C'è odore di umido, di muschio, ma anche un sentore vago e pungente di cera e incenso. Residui di memoria? Suggestione? O è questa cappella stessa che, come un animale ferito, continua a sanguinare il suo tempo?
Dicono che Carlo, l’ultimo dei Guala, sia morto senza eredi. Lo chiamavano "il matto dell’altopiano", e quando scendeva a valle con le tasche piene di sassi e i capelli pieni di vento la gente si faceva il segno della croce. Alcuni raccontano che venisse qui ogni domenica, da solo, a dire messa a memoria, con voce bassa, senza vino né pane. Solo con Dio. O con i suoi fantasmi.
Sotto l’altare, qualcuno ha scavato. Forse cercava oro, forse un segreto. Forse solo un rifugio. Eppure nulla sembra toccare davvero il cuore di questa rovina. Resta lì, immobile, come se custodisse ancora qualcosa, una promessa, un rimpianto, un peccato.
Mi fermo al centro della navata. Il pavimento è rotto, le mattonelle esagonali sollevate come scaglie di un drago addormentato. E io sono piccolo, piccolo come un’eco. Respiro a fondo. Ogni cosa qui parla piano, ma chi ascolta bene sente tutto: lo scalpello del muratore, il canto stonato del prete, i passi di una madre che prega per il figlio in guerra, il pianto dell’ultimo Guala.
E poi… lì, dove il pavimento si è aperto come una bocca stanca, scorgo qualcosa che non avrei voluto vedere: ossa, non una, ma più d’una, disposte in ordine incerto sotto le lastre rotte dell’ossario. Tibie, frammenti di costole, forse un cranio schiacciato tra pietre e calcinacci. Non sono state dissotterrate da mani pietose, ma scoperte dal tempo, tradite dal crollo. E ora stanno lì, come un segreto venuto a galla.
Forse erano le reliquie di qualche santo dimenticato. Forse il corpo di un prete, o di un benefattore. Forse di nessuna persona importante. Forse — e questa idea mi stringe lo stomaco — di qualcuno che qui è stato sepolto in fretta, lontano dagli occhi del mondo, senza preghiere né lapidi.
Il gelo ora non viene più solo dal terreno, ma da dentro. Eppure nulla sembra toccare davvero il cuore di questa rovina. Resta lì, immobile, come se custodisse ancora qualcosa — una promessa, un rimpianto, un peccato.
Esco lentamente. Il sole, invernale e pallido, accarezza le crepe del muro esterno come un pittore stanco. Mi volto un’ultima volta. La chiesetta non chiede niente. Non invoca, non piange. Accoglie. Com’è sempre stato.
E io — che non sono né fedele, né storico, né artista — mi sento improvvisamente in debito. Perché anche nel disfacimento, c’è bellezza. E dove c’è bellezza, ci sarà sempre memoria.
Il custode del crepaccio
Gennaio 2025.
Ci sono luoghi che restano in te più a lungo di quanto tu resti in loro. Da quando ho lasciato la chiesetta, non ho fatto che pensarci. Mi sveglio con il ricordo delle ossa, vado a dormire con l’eco delle sue crepe. Così sono tornato. Non per fotografare — questa volta ho lasciato la macchina a casa — ma per ascoltare ancora.
La strada è la stessa, ma il silenzio è cambiato. È più fitto, più pesante. Come se il gelo stesso avesse preso parola. Salgo tra le sterpaglie secche, il fiato che si condensa in piccole nuvole tristi. La cappella appare all’improvviso, dietro il fitto di rovi e rami spogli, come se fosse sempre stata lì ad aspettarmi.
Solo che oggi… non sono solo.
Un uomo è seduto su un sasso, accanto all’ingresso. Ha il cappello calato sugli occhi, una barba d’argento e un bastone consumato. Mi guarda senza parlare. Io rallento, quasi vergognandomi di disturbare. Ma è lui a parlare per primo.
«Li hai visti, vero?»
Non serve chiedere cosa intende. Annuisco.
«Non sono lì per caso,» dice. «Nessuno finisce sotto il pavimento di una chiesa per sbaglio.»
Mi siedo vicino a lui, lasciando che il vento ci attraversi. Si chiama Remigio. Dice di essere il nipote dell’ultimo sacrestano. Dice anche di essere tornato per finire un compito che non gli competeva.
«Mio nonno mi portava qui da bambino. Pulivamo le panche, spazzavamo il pavimento. Poi, quando la chiesa fu chiusa, lui venne lo stesso per anni. Portava fiori secchi, accendeva candele. Diceva che non si prega per Dio, ma per chi è rimasto indietro.»
Scopro che le ossa sotto l’altare sono lì da secoli. Due fratelli, morti durante una peste, lasciati lì da chi non aveva forza né tempo per seppellirli altrove. Nessuna lapide, nessuna preghiera. Solo pietà sussurrata e dimenticata.
Remigio tira fuori dalla tasca una chiave di ferro. Mi guarda. «Vuoi vedere il retro?»
Non sapevo ci fosse un retro. Attraversiamo un passaggio semi-crollato e ci ritroviamo in una sacrestia minuscola, invasa dalla muffa. Un crocifisso storto. Un banco rosicchiato. E… una scatola di legno, con inciso un nome che riconosco: Carlo Guala.
Dentro ci sono fogli, appunti, versi scritti a mano. Poesie brevi, confuse, ma struggenti. Frasi spezzate: “La messa è una carezza”, “Un altare è un letto dove Dio si riposa”, “Chi dimentica prega lo stesso”.
Li leggiamo in silenzio. Fuori inizia a nevicare.
«Hai intenzione di raccontarlo a qualcuno?» chiede Remigio.
«L’ho già fatto, in parte.»
«Allora torna ancora. I luoghi hanno bisogno di occhi, o muoiono due volte.»
Quando me ne vado, il cielo è basso e il mondo ovattato. E la chiesa… no, la cappella — perché è piccola, ma non meno sacra — è sempre lì. Più viva che mai, nel suo silenzio che ora conosco un po’ meglio.
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